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al FESTIVAL DI VENEZIA UN FILM COL CIRCO SULLO SFONDO

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Árni – Al Lido l’insolito rapporto fra un ragazzo ed un serpente

Árni a Venezia80 racconta l’insolito legame fra un giovane emarginato e un pitone nel contesto degradante dei circhi itineranti

al FESTIVAL DI VENEZIA UN FILM COL CIRCO SULLO SFONDO

Un ragazzo smilzo dal naso appuntito simile ad un uccello e dall’andatura dinoccolata. Una persona sensibile ed intelligente, che è impossibile non notare. Questo è Péter Turi, giovane attore ungherese, compagno di scuola della regista Dorka Vermes. Alla sua personalità e alla sua figura Vermes ha modellato Árni, il personaggio di un ragazzo riservato e incapace di creare legami da inserire in un lungometraggio.

Per il suo esordio la Vermes aveva pensato, inizialmente, di inserirlo in un classico ambiente scolastico. In seguito ha poi ha optato per una direzione diversa: il circo. Péter diventa quindi il protagonista di Árnifilm presentato in anteprima alla 80 Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia nella sezione Biennale College Cinema. Il film nasce all’interno della 11 edizione del College Cinema, ossia un laboratorio di alta formazione della Biennale di Venezia rivolto a giovani filmmaker italiani e internazionali per lo sviluppo e la realizzazione di lungometraggi a budget ridotti. Assieme ad Árni, in questa sezione vengono presentati anche i film Lumbresueño di José Pablo Escamilla e L’anno dell’uovo di Claudio Casale.

Árni è una storia di emarginazione: il protagonista, Árni per l’appunto, è il solo dipendente di un circo itinerante a conduzione familiare. Questo suo non far parte della famiglia lo mette ai margini della gerarchia all’interno di esso: il suo compito è quello di tuttofare e assistere gli artisti nel corso di alcuni numeri. La sua mansione principale tuttavia è quella di badare agli animali utilizzati negli spettacoli. Nello specifico si trattano di una grossa tartaruga, due varani, due barboncini e di due pony. Mansione che, come tutte le altre, lui accetta senza riserve. Quest’ultima, anzi, la preferisce. Con questi animali lui sente una specie di sintonia in quanto, come lui, sono degli emarginati e hanno come unica funzione quella di strumento di intrattenimento. Per Árni quest’ultimo passa anche per la prostituzione occasionale.

Una situazione che lui accetta e sopporta non controbattendo, tantomeno ribellandosi. Conduce questa sua vita senza rassegnazione, bensì come placida accettazione. Tutto ciò cambia quando, al circo viene portato un nuovo animale acquistato illegalmente. Si tratta di un pitone, stipato in un pesante baule. Anche quest’ultimo è un reietto, anche per gli standard del circo.

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«È troppo grosso» dicono gli altri quando vedono l’animale. Viene subito messo in un capanno adiacente a dove si è posizionata la troupe, ignorato da tutti. Per Árni questo rappresenta una novità all’interno di questa sua esistenza: decide personalmente di prendersi cura del rettile: lo nutre e gli fa visita tutte le notti. Lo guarda per ore strisciare: ammira il movimento sinuoso delle squame alla flebile luce del capanno, nel letto di paglia che Árni stesso ha meticolosamente preparato. Man mano che passa il tempo egli matura la decisione di addestrare l’animale, in quanto il “domatore” dei rettili si rifiuta ritenendolo un pericoloso.

Quando si propone di occuparsene lui stesso, Árni non trova alcuna obiezione. Anzi, i rettili all’interno del circo rappresentano un inutile fardello per il direttore, il quale preferisce a essi i cani in quanto più apprezzati dal pubblico per lui. I rettili sono oggetto ulteriore di oggettivizzazione perché rappresentano l’esotico. Il loro ruolo nello show è quello di essere esibiti davanti a un pubblico altrimenti annoiato. Dopo lo show sono la simpatica alternativa alla foto ricordo. Soprattutto nello sperduto paesino della provincia ungherese dove si è installato il circo. Un non luogo di anime morte ed ubriache, non troppo dissimili dai componenti stessi del circo. In questo ambiente gli alberi lasciano posto a tralicci e ciminiere senza soluzione di continuità. Un paesaggio spento in cui il tendone, altrimenti variopinto, risulta essere altrettanto spento. Il luogo dello svago diviene rapidamente parte di un paesaggio desolato.

Un posto in cui vivono e lavorano personaggi viziosi e collerici, nessuno escluso. Un microcosmo in cui la discriminazione è anche interna, per i motivi più disparati, come quelli economici. Ogni spettacolo segue una rendicontazione e a essa litigi e discussioni in una guerra fra poveri. È il mondo circense agli antipodi rispetto all’idea romantica e fanciullesca del circo. Non c’è magia, non c’è senso della meraviglia anche per i numeri degli acrobati. Tutto odora di degrado, sigarette e birra rancida. Le bottiglie semivuote sono abbandonate un po’ ovunque. Persino l’annuncio al megafono fatto dal direttore del circo risulta essere solo una cantilena ripetitiva e insostenibile. Nulla è giocoso e sorridente perché dietro quei sorrisi si nascondono rabbia fra i denti e rancori vari. Dei personaggi ancestrali, legati alla sopravvivenza e alla sopraffazione.

Da essi Árni si distacca. Da quando è arrivato il serpente, per lui rappresenta una possibilità, non tanto di rivalsa personale, ma di libertà. Le spire avvolgenti del rettile sono come un intenso abbraccio, in una specie di feticcio amoroso. Si tratta di fuga dalla realtà. Quando sono assieme lui si sente, finalmente, accettato: una situazione nuova per Árni.

Lentamente si lascia avvolgere i piedi, prima chiusi nelle scarpe, poi nudi. Fa scorrere l’animale fra le sue mani con tenerezza, fino a coricarsi seminudo sul pagliericcio, aspettando che questi strisci su di lui e lo avvolga. Questi momenti hanno il gusto del sogno, complice anche l’atmosfera interna del capanno, esaltata da inquadrature ravvicinate o dei totali dall’alto in cui i due sono mostrati nella loro interezza. Un momento lirico che ci fa dimenticare per un momento dove ci troviamo e cosa sta succedendo attorno a loro. E infonde anche un pizzico di speranza.

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