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Stampa: Milena Magnani racconta il suo libro, Il circo capovolto

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Milena Magnani: intendersi vale più che comprendersi

 

Milena Magnani racconta la genesi del suo libro, Il circo capovolto. Nato direttamente nei campi rom

 

Anche lei da bambina ha messo in piedi un piccolo circo, in un paesino dell’appennino, San Benedetto Val di Sambro. Si chiamava “Circo Rosa”, e oggi che è adulta e scrittrice, lo ha citato nei ringraziamenti del suo libro. Dove racconta la stessa esperienza di magia e di riscatto, anche se in un contesto completamente diverso: quello di un campo rom. Il circo capovolto, di Milena Magnani, è un elogio sognatore ed emozionato dell’antica arte del circo e dei suoi sacerdoti: «È incredibile come il corpo dei bambini lì ritrovi fierezza». Non per nulla Erri De Luca, nella presentazione del volume, parla del circo come salvezza.
Laureata in sci politiche sociali, esordi nelle prime comunità terapeutiche per tossicodipendenti, Milena ora lavora con persone segnate dal disagio mentale, in progetti di residenzialità leggera. La sua fonte di ispirazione per la scrittura, invece, sono le migrazioni e le grandi sfide dell’accoglienza.

Perché?
È inevitabile doversi misurare con la realtà dell’immigrazione, soprattutto nelle città. La puoi subire in maniera passiva oppure puoi andarle incontro in maniera attiva, cercare di capirla. In questo senso i campi rom sono una metafora della città, una babele. Anche in città c’è un rumore di fondo dove non si captano i codici delle altre lingue.

Lei nei campi rom ci va davvero…
Io ho sempre avuto una fascinazione per i piccoli circhi di paese, quelli a gestione famigliare, che tornavano ogni anno nella stessa stagione. Io abitavo in provincia e tutti gli anni passava un piccolo circo gestito da una famiglia di sinti, che a un certo punto si è ricilato come luna park e poi non è più passato. Ero curiosa di capire che fine avevano fatto queste famiglie. Ho iniziato ad andare a cercare quelli che si erano riciclati con altre forme di spettacolo, come i rettilari, per sostenere il mercato, poi ho inziato ad andare nei campi. Invece di capire, l’orizzonte si imbrogliava di più. Poi ho trovato il fil rouge: la tradizione, il mestiere, la nostalgia dignitosa per un’arte antica. Penso per esempio a Olimpia Della Veglia, che gira l’Italia con un rettilario ma conserva con cura e commozione la barra del trapezio con cui si esibiva nel circo di suo zio. C’è la nostalgia per il passato ma anche la consapevolezza che per quel passato oggi non c’è più spazio. Nei campi invece, spesso la nostalgia lascia il posto alla rimozione: perché lì non c’è futuro ma solo strategie di sopravvivenza. I bambini per esempio non sanno nulla di che vita facevano i loro padri prima di arrivare in Italia, nei campi.

Cos’è per lei il circo?
Io credo moltissimo nella riscoperta della gestuaità circense in chiave sociale. Penso a Miloud, a Bucarest, ma anche Vila Esperança in Brasile… È impressionante come il corpo dei bambini qui ritrovi fierezza, la dignità di essere guardati, di rapportarsi con il socilale. Succede anche nel mio romanzo. Il circo è il simbolo della speranza e di riscatto in questo senso. È una metafora fino a un certo punto, proprio perché le esperinze sociali hanno dimostrato il loro valore.

È bello, ma non è un po’ poco? Per di più lei sa benissimo che il circo in sé è morto, la voce narrante è addirittura quella di un morto…
Certo, non ci sono più i grossi circhi, ma solo piccole dimensioni dove l’approccio terapuetico ded educativo può davvero mettere al primo posto il linguaggio del corpo. I bimbi rom sono abituati a una dimensione estrema di fisicità, e il circo li seduce perché è molto simile al loro modo di stare nel mondo. Non si tratta più di una professione in cui investire ma di uno strumento sociale. Il rapportarsi all’esterno per questi bambini è fondamentale, essere approvati da uno spettatore è essenziale: nell’applauso del pubblico c’è un sollievo incredibile. Ma il circo è anche disciplina, non espressività libera.

Nel libro ci sono molti ringraziamenti a sinti e rom. C’è qualcuno che ha avuto un ruolo particolare nella nascita di questo libro?
Padre Flavio, un frate cappuccino che da anni vive in un accampamento di sinti alla periferia di Bologna. Quando ci andai per la prima volta, lui fu l’unico a mettermi in guardia. Mi disse: guarda che non si viene ad avvicinare quste persone per curiosità, le loro sono vicende serie, se vieni ne fai tesoro, li tratti con rispetto, anche perché loro sono abituati ad essere strumentalizzati. Spesso infatti nei campi vanno giornalisti e fotografi dicendo che vogliono fare un lavoro sulla situazione nei campi, di solidarità e poi invece fanno il solito articolo sul degrado e l’allarme sicurezza. E poi Pietro Barbetta, rom di trazione zingara ma sedentarizzato, che vive in provincia di Lecce: ha raccontato della sua infanzia, sempre in giro con la famiglia, con i teli appesi ai carri per ripararsi la notte. Sembrano cose del secolo scorso, invece Barbetta ha 50 anni. È impressionante come le dimensioni esistenziali del popolo rom si siano modificate in pochi anni. Molti poi mi hanno aiutato col discorso linguistico…

Perché lascia quelle frasi non tradotte, che per un italiano sono chiaramente incomprensibili?
È stata una scelta intenzionale, ci ho ragionato. Prima di tutto ho pensato che nelle esperienze reali non ci sono traduttori. Chi vuole parlare con i rom deve sforzarsi di intendersi con loro, di andare oltre quei pochi terreni comuni a livello linguistico, in mezzo a un pullulare di parole incomprensibili. Se si vuole andare verso l’intercultura il primo passo è questo, accettare che le differenze linguistiche siano qualcosa con cui convivere, senza la pretesa di voler capire tutto dell’altro, fino in fondo, ma accontentarsi di intendersi sulle cose importanti. Ho cercato di riprodurre questa atmosfera, per cui anche il lettore si trova ingarbugliato e disorientato da questi idiomi diversi, incomprenbili, ma con la certezza che avrebbe comunque capito lo svolgersi della vicenda. È un atteggiamento culturale che dovremmo imparare ad assumere, convivere con le differenze senza pretendere di assimilarle.

Che reazione hanno avuto al suo libro?
L’ho mandato a qualcuno, mi hanno ringraziato, ma finisce lì, non c’è stato un ragionamento intelettuale sull’operazione in sé. Ho evitato di fare presentazioni nei campi, qualcuno me l’aveva suggerito, perché ho paura di strumentalizzarli. Ho scritto una storia, ma ora questi due mondi si incontreranno se lo vorranno loro.

Lei non edulcora nulla dei campi rom né santifica le vittime. Branko, il maestro di circo, non è una persona limpidissima… Cosa vuol dire?
Volevo crecare di essere aderente alla realtà. Spesso si rischia di cadere nella visione bucolica e romantica, idealizzata, dei rom che viaggiano per le strade d’Europa: in verità non è così. Ci si misura con una realtà di abbruttimento, di degrado, di microcriminalità: queste persone sono vittime ma anche attori della criminalità. Non si può far finta di niente, se vuoi parlare al lettore di oggi, se vuoi fare un racconto con uno sguardo sociale.

Alexian Spinelli denuncia sempre il buio che circonda la cultura rom. È una cosa condivisa?
Spinelli è una figura importantissima di questo mondo, ma a volte ha uno sguardo eccessivamente ottimista. Lui dice che non è vero che i rom non vogliono vivere nelle case, ma lui è in Italia da secoli, ha un’altra esperienza di radicmento sul territorio. Se avvicini le famiglie di recente immigrazione trovi un vissuto e un attegghiamento diverso, trovi paura, diffidenza e rabbia per le discriminazioni subite che Spinelli non ha. Il primo passo, ormai urgente, è quello di trovare terreni comuni sgombri dalle dure storie che questo popolo si porta sulle spalle.

Da www.vita.it del 13/03/08

13/03/2008 10.18.14

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