Circusfans Italia

IL PORTALE DEL CIRCO ITALIANO

Le confessioni di un clown

Le confessioni di un clown

Le confessioni di un clown
«I bimbi ridono, alla faccia di Stephen King»

Il circo raccontato dai suoi artisti: «In pista si nasce e si cresce, ci si sposa e si muore. La vita sotto il tendone non è lavoro, per noi è tutto»
di Walter Veltroni

Come sono gli artisti sotto la tenda del circo? Sono perplessi.Le confessioni di un clown
Il titolo del bellissimo film di Alexander Kluge, vincitore a Venezia nel 1968, sintetizza lo stato d’animo delle persone che incontro una mattina di novembre sotto una tenda ad Acilia, periferia di Roma.
Sono i tre fratelli della famiglia Vassallo che da sei generazioni fa vivere attività circensi. E siccome non sono adolescenti è certamente dall’Ottocento che, di padre in figlio, di madre in figlia, i portatori di quel Dna salgono sul trapezio, si travestono, curano le belve, suonano la tromba o il trombone, si truccano da
clowns.
Oggi gestiscono il circo Rony Roller. Lo fanno con orgoglio e fierezza. Sono Alberto, Rony e Daniela che mi racconta quando, a cinque anni, fece la sua prima apparizione sulla pista vestita da ballerina. Il pubblico, divertito e commosso, le lanciò delle caramelle. Ma lei, lo ricorda ancora, non si chinò a prenderle perché la scaletta dello spettacolo non lo prevedeva. «Qui, sulla pista si lavora, ci si sposa, si muore. Per noi è tutto. È un mondo a parte. Per noi conta solo quello che succede qui. Puoi essere una cattiva persona, ma se in pista fai divertire il pubblico tutto ti viene perdonato».
La dimensione familiare nel circo è decisiva. La storia italiana di questa attività è legata a pochi cognomi.
Alberto Vassallo li ricorda, forse ne dimentica qualcuno: «Togni, Orfei, Vassallo, Zavatta, Casartelli, Pellegrini, Errani, Dell’Acqua, Saly, Zanfretta, Canestrelli, Carbonari…».

Le confessioni di un clown


Carovana in viaggio

Rony, il minore dei Vassallo, sottolinea più volte come l’attività circense possa reggersi solo se esiste una forte solidarietà familiare, se si crea un gruppo: «Noi arriviamo in una piazza e montiamo il tendone in sei. Siamo sempre noi. A stendere le funi e sistemare le sedie ci sono il clown, i domatori, i trapezisti. In un
giorno la struttura è tirata su e lo spettacolo inizia. E poi siamo sempre noi al bar, in biglietteria, in sala con il costume sfavillante. Facciamo tutto. È la nostra vita, non solo il nostro lavoro».
Alessia Dell’Acqua, sua moglie, erede di un’altra famiglia del settore, mi dice che «il circo non è un’occupazione, è un modo di vivere. È un viaggio. Nel circo ognuno fa quello che vuole e sa fare. Ma ognuno aiuta l’altro. Siamo una comunità, ci diamo la mano l’un l’altro. Noi nasciamo qui, viviamo qui. A sette, otto anni esordiamo in pista e non ce ne andiamo più. Io sono la presentatrice dello spettacolo,
ho un costume pieno di paillettes, ma la mattina presto giro per le strade limitrofe alla piazza dove ci siamo fermati per attaccare le locandine o vendere i biglietti dello spettacolo. Sa, ne facciamo trecento, durante l’anno. Ora, a Natale, saremo a Torrevecchia… Sono cinquanta persone che si sfamano col nostro circo… Noi facciamo tutto: siamo sarte, carpentieri, baristi, falegnami, cuochi. E insieme acrobati e
trasformisti, pagliacci e giocolieri».

Alberto Vassallo, che ora è il manager del circo ma per tanto tempo ha fatto il clown in pista, dice un po’ sconsolato che venti anni fa in Italia c’erano trecento circhi e ora ne sono rimasti solo trentatrè.
«Ci uccide la burocrazia. Le piazze non ci sono e affittarle dai privati, nonostante per la legge Andreotti i comuni dovrebbero individuare un’area dedicata, è molto costoso. La nostra azienda ha due avvocati, due commercialisti, due veterinari… E quando ci spostiamo, con 25 roulotte, può immaginare quanto spendiamo solo di nafta. Aggiunga che per il Covid siamo stati chiusi 22 mesi… Ma noi in quel periodo dovevamo mangiare e gli animali dovevano esser alimentati e curati. Perché noi agli animali ci teniamo. Osserviamo tutte le disposizioni e aggiungiamo delle nostre attenzioni, come il prelievo del cortisolo per individuare se esiste stress negli animali. Chi li maltratta non solo fa male a loro ma danneggia tutta la categoria».
La dimensione dei circhi si misura con «le antenne», delle vette metalliche il cui numero ne decreta la maestosità. Fuori ha piovuto, il fango ha divorato l’area antistante la biglietteria. La «carovana», così si chiama ogni grande roulotte che costituisce la casa di questi eterni viaggiatori, espone all’esterno scarpe inzaccherate. I bambini di queste famiglie studiano come possono, spesso a distanza. Ma studiano, qualcuno si è persino laureato. Anche loro sono della famiglia circense e perciò cercano, tra le mille discipline, quella che preferiscono. Un ragazzo di tredici anni, Edoardo, è appassionato di luci e se ne occupa durante lo spettacolo che, in qualche modo, dipende da lui. Yula e Aris si dividono tra trapezio e trasformismo. La loro vita, come quella delle sei generazioni precedenti, sarà così: viaggio, luci e odo-
re di terra bagnata.
Siamo seduti nell’area del tendone. Alessia ha preparato un caffè con la Moka, non con la
macchinetta. Mi viene da pensare che qui il tempo è sospeso, che tutto è uguale a come era decine di anni fa. Siamo al buio, all’inizio. Claudio, il fotografo del giornale, scatta immagini e mi dirà, alla fine, «Qui le foto belle vengono da sole…».
Poi accendono le luci e sul palco si materializzano, come d’incanto, delle ragazze che si appendono al trapezio, qualcuna che fa volare delle palline in cielo senza farle mai cadere. Tutto, anche in questa mattina banale, sembra magico.
Manca solo la musica, quella musica da circo che riconosceremmo tra mille e che è un impasto di gioia sfrenata e di struggente malinconia. Come, in fondo, è il circo.
Almeno per me. Da piccolo mi attraeva e mispaventava. Mi piacevano il mondo colorato, la musica, l’atmosfera da saga allegra di paese e da cartone animato. Ma ero a disagio. Avevo paura che gli acrobati si facessero male, che il domatore rischiasse troppo, che gli animali fossero tristi per essere usati come fenomeno da baraccone.
E poi, i clowns, ma di questo parleremo dopo. Federico Fellini, che al circo ha dedicato molto della sua opera, compreso un piccolo film che si chiama proprio «I Clowns», così lo descriveva: «Il circo non è solo uno spettacolo: è un’esperienza di vita. È un modo di viaggiare nella propria vita. Nel circo corre un’aria di
mattatoio. Vi sono la follia, le esperienze terrorizzanti. Eppure il tendone, quell’odore di bestie hanno per me qualcosa di familiare. La minaccia della morte, l’emozione di simili spettacoli si riallacciano, certamente, alle esperienze dell’antico Circo Massimo… C’è il sangue, in mezzo alla segatura».

Si dice che se un acrobata cade i primi a entrare in scena siano i clowns. Come nella vita. Il circo è un buongiorno e un arrivederci che dura qualche giorno. Si arriva, festosi, si monta la tenda, si ride e ci si stupisce, bambini e famiglie, si chiude, si fanno le valige e si riparte per un altro posto.


I ricordi di Fellini Le confessioni di un clown Le confessioni di un clown Le confessioni di un clown Le confessioni di un clown Le confessioni di un clown

Ancora Fellini: «L’arrivo del circo di notte, la prima volta che lo vidi, da bambino, ebbe il carattere di un’apparizione. Questa specie di mongolfiera, preceduta da niente: la sera prima non c’era, la mattina era là davanti a casa mia. Pensai subito che fosse una barca sproporzionata. Quindi l’invasione — perché que-
sto era stata: una invasione — era legata a qualcosa di marino. Una piccola tribù corsara».
Alle luci del circo assomiglierà la sagoma illuminata del Rex, alla sua musica sfrontata si ispirerà il finale metaforico di «Otto e mezzo», ai suoi artisti il personaggio di Zampanò in «La strada».
Il circo ha dominato l’immaginario di Fellini come la poetica di Charles Chaplin. A cominciare dal suo abbigliamento, con quelle scarpe grosse, che sembrano di un clown. E anche nel suo cinema il circo torna spesso. Uno dei suoi film più teneri e belli si chiama proprio così, semplicemente: «The circus».
Il magnifico personaggio di Calvero, clown in declino, illumina «Luci della ribalta» e rimane per sempre nella memoria di chi lo abbia incontrato.

Tim Burton ha evocato il circo nel suo film più riuscito «Big Fish», Woody Allen in «Ombre e nebbia» e Wim Wenders ha fatto volare Marion, la protagonista di «Il cielo sopra Berlino», sul trapezio di un circo che sta chiudendo.
Il circo è la dimensione magica, infantile, dello spettacolo. Nasce per stupire, lo si deve vedere con gli occhi spalancati. Il più bel disco con le musiche che si usano in pista, eseguite dalla Circus Band, contiene inaspettatamente un brano in cui ci sono solo degli ooooh di meraviglia.
Il circo è la continuazione della tradizione dei saltimbanchi. Cose che nascono forse nell’antica Roma. Ma di un pagliaccio che volteggiava si parla a proposito della compagnia di Zan Ganassa già nel 1570. È con la fine del Settecento, in Inghilterra, che lo Shakespeare del circo, Philip Astley, allestisce in un maneggio uno spettacolo completo fatto di attrazioni varie.
Da allora il popolo del circo ha cominciato a viaggiare, incrociando la tradizione Sinti, etnia nomade che usava esporre animali nei paesi dove si spostava.
Il viaggio, lo stupore. Forse sono questi gli ingredienti più importanti del circo.
Chiedo ai Vassallo, guardando le duemila sedie vuote che forse stasera si riempiranno,
se il pubblico c’è ancora o se la copertura totale di immagini e di emozioni che la società tecnologica ha determinato non abbia giustiziato nei contemporanei la capacità o il desiderio di stupirsi. Se, insieme alle lucciole di Pasolini, non siano in fondo spariti anche gli oooh di bambini e adulti.
Risponde Alessia per tutti: «Il pubblico c’è, altrimenti non ci saremmo noi. Ma ha bisogno sempre di qualcosa di nuovo, di un prodotto di qualità. E noi ci sforziamo di inventarci sempre qualcosa. Pensi che il figlio di Gyula, il clown, ha creato un numero in cui riesce a far suonare una batteria sputando o tirandoci sopra delle palline. E Gyula ha inventato una esibizione con le campane che fa impazzire il pubblico».

Mi torna alla memoria il film di Kluge. Lì una donna, idealista e sognatrice, vorrebbe fondare un circo fatto solo della fantasia e della verità. Non ci riuscirà, dilapiderà tutte le sue sostanze e finirà a pietire spazi in televisione, il nuovo Dio. Per consolarsi dirà profeticamente: «Con i passi lunghi ci si rende soltanto ridico-
li, ma con tanti piccoli passi potrei divenire segretario di Stato agli affari esteri». Le confessioni di un clown


Trucco e costume

Eccolo, il clown. Arriva dopo. Si chiama in quel modo perché la sua famiglia è ungherese.
Suo padre, lo dice con orgoglio, è un mito della clowneria italiana. Si chiamava Vittorio Saly, in arte Patata. È stato settant’anni in pista e ha trasmesso l’arte del pagliaccio a suo figlio. Da cinque generazioni si sforzano di far ridere i bambini.
«Ma ora i bambini hanno paura dei clowns, non è più come prima. Se lei cerca il nome del nostro lavoro su YouTube le appariranno solo immagini horror. Da quando Stephen King ha inventato il personaggio di It per noi è diventato tutto più difficile».
In effetti King, genio della paura, decise di vestire dal pagliaccio un personaggio il cui senso della vita era «divorare mondi e bambini» perché alla domanda su quale fosse la cosa che più spaventava i piccoli di ogni parte del mondo si era risposto: «i clowns».
«Molti bambini piangono, e per questo abbiamo deciso di avere un solo clown. Vogliamo
si affezionino al personaggio. Gyula ci sa fare, è molto bravo» dice Rony Vassallo.
«Sì io cerco di familiarizzare quando i bimbi entrano, non li forzo mai a venire sulla pista, cerco anche nel costume di non evocare tutto quello che loro temono».
Gentilmente, per noi, Gyula e sua moglie Elisa, raro caso di donna clown, si truccano e si vestono. Lui mi dice onestamente che gli è capitato di recitare in platee semivuote o di fare spettacoli in cui nessuno rideva. «È dura, ma bisogna resistere. Da un po’ di tempo le persone sono più tese, meno disponibili ad accettare di divertirsi, più cupe. Per me fare il clown è una vocazione, è il mestiere più bello del mondo».
Lo guardo e noto che anche Gyula, clown buono, ha nel trucco un ghigno dipinto di nero e di bianco che gli attraversa la bocca. È il costume di scena, quello che dura da sempre.

Sorriso e inquietudine, allegria e disperazione.
Come la vita di tutti noi.

Da Corriere della Sera del 04/12/22 

Visita le nostre sezioni

ARCHIVIO STORICO

 TOURNEE’

Per rimanere sempre aggiornati sulle tappe dei circhi italiani

Le confessioni di un clown

Se questo articolo ti è piaciuto condividilo sui tuoi social utilizzando i bottoni che trovi qui sotto

Translate »
error: I contenuti sono di proprietà di www.circusfans.eu - Contents are owned by www.circusfans.eu.