
Oggi con “Il Messaggero”
“Casanova di Monicelli
Con Moira Orfei
La cilecca di Marcello
Mastroianni ce la fa ma solo di fronte al pericolo
LE SCORRIBANDE di Marcello Mastroianni nel cinema italiano sono state tutte significative. La maestria dell’attore si coniugava alla sua grande duttilità, alla facilità nel passare da un personaggio all’altro rimanendo se stesso. È così che in un gesto estremo e rischioso come quello tentato da Mario Monicelli in Casanova ’70 (1965), il grande attore nato a Fontana Liri trova una misura straniata, poco usuale, così come un altro grande attore scomparso, Enrico Maria Salerno, presente come psicoanalista grottesco e orientaleggiante, il dott. Capasso dell’Università di Napoli. Fin dal titolo, il film risulta giocato sul filo del paradosso: Casanova ’70 racconta la storia di un impotente, o meglio, di uno splendido esempio di latin lover, che però riesce a esprimersi soltanto in situazioni di estremo pericolo. Situazioni analoghe troviamo, per un verso, ne Il bell’Antonio di Mauro Bolognini, tratto dall’omonimo romanzo di Brancati, interpretato dallo stesso Mastroianni per altro verso, in Sesso matto di Dino Risi (film a episodi assai sottovalutato), in cui vediamo Giancarlo Giannini dare il meglio di sé solo su mezzi in movimento (camion, treni, ascensori, ecc.).
Eppure, il grottesco che esprime Monicelli con la sua squadra di grandi sceneggiatori (la pellicola fu candidata all’Oscar per la migliore sceneggiatura nel ’66, l’anno successivo all’uscita nelle sale), sconta un po’ di fiducia eccessiva proprio nel paradosso. Inteso come chiave che apre tutte le porte di una realtà sfuggente e ridicola, esso indugia a volte un po’ troppo. Quello che va notato, all’attivo, è l’archeologia degli Anni Sessanta, i reperti inconfondibili di un’epoca straziante (nell’effetto che fa nella memoria) tanto è attraversata dal cambiamento. Tuttavia, è proprio nel purgante comminato a una presunta liberazione sessuale, che l’italietta descritta da Monicelli, Suso Cecchi d’Amico, Age e Scarpelli ritrova tutto il suo provincialismo, espresso magnificamente nel guardaroba di vestaglie, foulard e capelli impomatati del Casanova protagonista, lui sì quanto mai paradossale, nella sua ricerca affannosa di avventure, cui fa riscontro l’immancabile “cilecca” ogniqualvolta non v’è nulla di rischioso all’orizzonte.
Il film, dunque, si snoda come una serie di incontri, alla maniera boccaccesca, galanti e non galanti, di inciampi in personaggi incontrati casualmente, sempre alla maniera monicelliana e dunque picaresca. Vediamo il Nostro mentire al commissario francese Bernard Blier (altra figura chiave nel cinema del regista viareggino) al cospetto di Michèle Mercier, bellezza conturbante di quell’epoca, non soltanto per la serie di Angelica, ma anche – per esempio – come splendida visione in Sparate sul pianista di François Truffaut o lo vediamo srotolare un kimono di otto metri a una hostess giapponese. Le donne, ovviamente numerose dato il soggetto, sono tutte bellissime: Beba Loncar, Margaret Lee, Marisa Mell, Liana e Moira Orfei, e ne dimentico qualcuna. Virna Lisi, che oltre alla bellezza qui è di rara bravura, incarna l’eterno femminino del mammone italiano: Gigliola, la speranza della donna che aspetta e che alla fine avrà ragione di tutto (tranne quando pure lei vuol fare un peccatuccio anzitempo).
Nel paesotto pugliese, Altamura, aspettano il nostro presunto Casanova come un “figliol prodigo”: così lo chiama il prete, incarnato da Guido Alberti, altro volto significativo di quell’epoca (il produttore in 8½ di Fellini). Bellissima la scena siciliana, con molteplici nanetti che controllano se la ragazza sia illibata (e mezzo-Casanova lì colpisce, perché il contesto è a rischio delitto d’onore, e l’auto presa a nolo gli finisce in un dirupo). Ma in fondo, era tutto chiaro dall’inizio: durante lo spogliarello parigino della prima scena, il nostro Andrea si addormenta.
di LUCA ARCHIBUGI
Da Il Messaggero del 05-10-05
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