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UNA RIFLESSIONE DI R. DE RITIS: ”Il tramonto della meraviglia”

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UNA INTERESSANTE RIFLESSIONE DI
RAFFAELE DERITIS

In occasione dei fatti di Imola, lo storico Raffaele De Ritis ha pubblicato sul proprio blog un articolo che merita di essere letto, non solo per la qualità di scrittura (cui De Ritis ci ha abituato), ma perché evidenzia dei contenuti che troppo spesso vengono ignorati, travolti da un conformismo ideologico e da un’attrazione per il “politically correct” che sta uccidendo il nostro mondo e la nostra cultura a vantaggio di messaggi subliminali veicolati dal mondo della politica e dei media. Ve lo proponiamo interamente:

Il tramonto della meraviglia

La meraviglia è un’emozione di cui si ha volte pudore: è effimera, superflua, infantile ancor più nella società dei sensi di colpa, delle religioni perse in schermaglie con le scienze, della razionalità e delle contraddizioni.
Nella società proibizionista in cui chi teme i gay va a travestiti, chi bandisce le droghe ne fa uso, chi è vegetariano domina col guinzaglio il cane, non v’é ruolo per la natura sfrontata, e per la meraviglia del suo mistero. L’immagine incontrollata di una giraffa in giro per la città è dunque un tabù, che l’epilogo tragico esalta. Senza lo zelo di anestesisti da film d’azione, sarebbe rimasta strascico imprevisto delle ormai epurate parate estemporanee dei circhi per le strade, attrazione come lo sono ancora i morbosi capannelli dinanzi a qualunque catastrofe urbana.
La meraviglia delle parate e di certi incidenti era un tempo necessaria a capovolgere il nostro grigiore. La bestia in città ci ricordava che le barriere contro natura non erano quelle dove l’uomo convive ancora con l’animale, ma le strade e i palazzi con i quali quella natura abbiamo violato. Certo, qualche pompiere salva ancora i gatti sugli alberi ma avremmo ancora bisogno che ogni tanto un elefante sfondi un negozio di frutta, o che una Domenica del Corriere trasfiguri fiabescamente un gorilla dentro una chiesa poiché è meno interessante vivere senza che qualcuno ci forzi, ogni tanto, a mettere in discussione la linearità del nostro vivere e che lo sterco d’elefante dissipi il tanfo della nostra ipocrisia.
La morte accidentale di un animale altrove da un mattatoio suscita in noi pietas perversamente maggiore di quella per guerre lontane. Se ne giustifica l’errore umano maldestro, ma si rafforza la condanna al tabù dell’animale asservito, espiando secoli di sterminio.
Infatti di fianco a questa società dei sensi di colpa ce n’è da sempre un’altra.
C’è la società dei giullari, della meraviglia e del mistero, quella che non è legata a un territorio ma che da sempre sta ovunque e supera qualunque ostacolo, trasversale per necessità a ciò che è legittimo e ciò che non lo è. Il nomadismo circense ha perso da tempo pittoreschi strascichi di illegalità, sebbene restino alcuni meccanismi di cultura dell’inganno, affascinanti quanto irritanti, a partire dall’artificio mimetico di quello che più identifica chiunque: il nome, qui all’infinito declinato, mercificato e rinnegato. Anche per questi misteri identitari il giullare forse non si scrollerà mai l’involucro di diffidenza che ne accompagna l’errare.
Il moderno tabù si morde la coda sorvolando ippodromi, negozi di acquari o fabbriche di morte come allevamenti e concerie, per lasciare sui circhi l’anatema dello scandalo, con l’arma potente e frettolosa dell’emotività, il suo arsenale di retorica, antropomorfismo e luoghi comuni di etologia da ciclostile, in bilico tra buona fede e secondi fini.
Perché? La risposta è forse che i circensi, non sono considerati parte della società. I giullari sono un atavico corpo estraneo, incontrollabile. Ma necessario. Hanno per natura l’imprevisto, per vocazione la trasgressione dalla realtà, la meraviglia, l’eccesso, il legame ancora estremo con la natura, in una sincerità che abbiamo perso e che forse temiamo. Perciò fa comodo credere ancora che il circo strappi le giraffe alla savana. Perciò il circo va cacciato dalla città, come accadeva con i giullari che dicevano una verità di troppo. Se la città nasconde un omicida, è al circo che si prelevano le prime impronte se scomparivano i bambini, per secoli al circo li si andavano a cercare.
Il circo è tollerato nel suo messaggio di confusione: dice che viene da Mosca o da Parigi e nessuno saprà mai se é vero. Ma in ciò è l’ultimo avamposto di un valore importante: il dubbio, la messa in discussione della verità. E’ un ruolo sciamanico di inganno, che la società non deve perdere. Se scompariranno la puzza di letame, le facce con centomila chilometri per ogni ruga, le insegne posticce e le fruste, si sarà forse espiata qualche colpa secolare. Ma non si smetterà di disboscare foreste, abbattere elefanti e sfoggiare borsette di giraffa. E la società avrà perso, con il circo, uno degli ultimi suoi legami con la natura, la meraviglia e il mistero.
Di Raffaele De Ritis

27/09/2012 12.39.26

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