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Un’ora di giochi con i tigrotti? Costa un maglione

Tre tigrotti di tre mesi si trastullano trottando come trottole. Non è uno scioglilingua, ma una scena sul prato della campagna veneta. Vanja, Hassan e Kampur, nomi rispettosamente indiani, sono venuti al mondo il 25 giugno scorso poco fuori Budapest. La loro nascita ha reso onore e vita a questo anno cinese della Tigre, simbolo di un destino fecondo, anno che per le tigri ha segnato invece una serie di lutti e di calamità.
«Prego, signora, li faccia giocare!», dice l’uomo che li accudisce. E come? «Pensi solo a una cosa: sono gatti». Vanja, Hassan e Kampur ci osservano con il muso un po’ storto, aggrovigliati come sono sull’erba, ma non appena sciogliamo il nastro del golf messo appositamente, ecco, dopo pochi secondi, il nastro non esiste quasi più.
Hanno il dorso rosato con le striature nocciola e la pancia candida, sono nati da Delhi, una tigre rosa, e da Tibet, maschio di nove anni, duecentodieci chili, completamente bianco, occhi celeste laguna, sdraiato con la pancia al sole a pochi metri da noi. Sornione e vanitoso, non fa un passo, si piace solamente nel riposo della sua maestosa beltà. Mentre i figli marachellano, lui sbadiglia e apre un ciglio per controllare la scena, sempre da lontano, perché fino ai sei mesi dei piccoli il padre è tenuto a distanza, potrebbe danneggiarli.
Delhi, la madre, è qui a due passi, basterebbe allungare una mano per toccarla, ma la prudenza in questo caso vince sulla tentazione sottili sbarre ci dividono. Intorno a Vanja, Hassan e Kampur le tigri sono undici. Ci fissano tutte, ferme come statue, pronte come arcieri.
«Sono gatti – pensiamo – coraggio, sono gatti». Quindi… Va beh. Rovesciamo Vanja sulla schiena, un finto morso e un ruggito che sembra una risata, gli artigli come spine di una rosa grande come Gulliver che già graffiano con dolore insopportabile – altro che gatto! I fratelli accorrono. L’agguato, le leccate, la morsa delle zampe, si ottengono allo stesso modo dei gatti. Ringhiano, sbavano, incurvano la gobba per dire «la più forte sono io» e poi diplomatiche e gigione, quando le stringi con le mani a fargli percepire la tua di forza, strusciano il muso dai lunghi baffi e ti buttano lì anche delle fusa.
Se tocchi Vanja li hai tutti addosso. È piccola, tanto che viene ancora svezzata dal biberon. È anche la più vivace. «Come sempre – commenta ancora l’uomo che li accudisce – da piccole le tigrotte sono irrefrenabili». Vanja salta sulla groppa di Hassan, il più massiccio dei tre gemelli, gli morsica un orecchio, lo solletica con le unghie, così la lotta tra loro ritorna ad essere un gomitolo di zampe e di code che si srotola sul prato, tra dispetti veloci e coccole interminabili. Non c’è dubbio: il felino è l’essere terrestre più tenero e cucciolone, un fuoco che brucia con estenuante dolcezza. Figlio di una tigre bianca, la più rara sul pianeta, uno dei tre piccoli fratelli, una volta adulto, potrà generare a sua volta un’altra tigre bianca, perché questo difficile esemplare nasce dall’accoppiamento di tigri rosa, ogni due o tre generazioni. Kampur si è già sdraisto ai nostri piedi e ringhia. E via di corsa oltre un albero dove c’è una vasca: in un attimo si tuffa. Le tigri adorano nuotare. Kampur esce e si dimena: una doccia. Ora il golf è proprio alla fine. Lo togliamo e lo gettiamo in mezzo alle tre pesti, che se lo contendono. «Mi di spiace, signora!» si scusa l’uomo. Non si preoccupi. Lo avevamo previsto, addirittura voluto! Cosa non si fa per una tigre! Lo aveva esclamato un poeta, il più alto rimatore del felino rosso che mai sia vissuto. Borges. Ora Vanja, Hassan e Kampur sono stanchi e come tutti i cuccioli crollano d’improvviso. «Allora, ha avuto quello che voleva: un pomeriggio da tigre. Sia onesta: ha promesso che non scriverà! – si raccomanda ancora l’uomo -. Non mi faccia bisticciare con mia moglie. Lei ed io andiamo molto d’accordo, gli unici nostri litigi sono causati dagli animali, perché sostiene che passo più tempo con loro che con la mia famiglia. Sa, li ho nel sangue da ben diciotto generazioni!». La invidierà anche Borges! E potrà capire che il gioco, il passo felpato e l’agguato improvviso non sono tradimenti e che, anche se scriveremo – nostro modo di tigreggiare- non si tratta di infedeltà, ma di scatto felino. Siamo certi, potrà comprenderlo l’uomo dei tre tigrotti che si trastullano in questo campo di 800 metri quadrati. Non si chiama giungla nel nostro linguaggio si chiama cattività. Riposa nel verde la gemellina trinità, perché sia nata qui, nessuno può dirlo, in ogni caso è un segno dell’artiglioso genio della vita, fecondatasi tra le tensostrutture, i carrozzoni e i recinti di una famiglia che si chiama Togni.

Da www.ilgiornale.it del 04/10/10

05/10/2010 12.13.39

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