L’ultimo circo dei pugni
Fred Brophy e i suoi ragazzi, idoli del pugilato itinerante in Australia. In viaggio tra le città di frontiera per sfidare gli uomini più coraggiosi
IVO ROMANO -SYDNEY
Le sue memorie di una vita da vagabondo finiranno presto in una biografia. Poi, una volta tagliato il traguardo dei 30 anni di attività (ora è a quota 28), chiuderà i battenti del suo circo, fino a far scorrere i titoli di coda su un’atavica tradizione. Suo figlio non ne vuol sapere di raccogliere il testimone dalle mani del padre, da tempo nessun altro se ne va in giro per l’Australia portando fin negli angoli più sperduti l’aspro e affascinante spettacolo del pugilato itinerante. Fred Brophy è una leggenda, l’ultimo custode di un fenomeno antico, quasi fuori dal tempo, conosciuto come «tent boxing», il pugilato nella tenda. Roba che affonda le proprie radici all’inizio dell’altro secolo, radici che a seguirne il percorso conducono in Inghilterra. Un’usanza che s’è persa per strada, talvolta vietata dalla legge (come negli Stati Uniti d’America), per perpetuarsi solo dall’altra parte del pianeta, in Australia, malgrado sia stata messa al bando dal governo, fin dal lontano 1971. Intorno a essa si sono costruiti autentici miti, come Roy Bell e Jimmy Sharman, che sulla strada ha resistito per qualcosa come 60 anni, e mille polemiche, relative all’oggettiva pericolosità di tale pratica.
Al rullo di tamburo Poi il fenomeno è andato scemando, usurato dall’uscita di scena di autentici baluardi e dalla mancanza di vocazioni tra i più giovani. Con una sola eccezione, Fred Brophy, showman di quarta generazione e figlio d’arte (trapezista la madre, organizzatore di spettacoli il padre), la cui «troupe» mai ha smesso di girovagare per il Paese, piantando le sue tende in improbabili contrade rurali, in occasione di ogni fiera o festa che si rispetti. Pochi gli ingredienti, di sicuro impatto. Un tendone da circo, solo un po’ più piccolo, un gruppo di pugili semiprofessionisti, con tanto di altisonanti soprannomi a conferire loro un’aura da leggenda. E lui, Fred Brophy, che fa rullare il suo tamburo, arringa la folla con fare teatrale, invita a gran voce gli spettatori a sfidare i suoi pugili: «Volete vivere la più grande esperienza della vostra vita? Tra un po’ vedrete qualcosa cui non avete mai assistito finora e di cui parlerete fino alla morte. Che i più coraggiosi, i più temerari affrontino i miei uomini. E gli altri se ne tornino ai loro lavori domestici!». Provoca la gente, ne attira l’attenzione, ne solletica l’orgoglio. Mentre Kid Valentine, Birdsville Mauler, Fighting Hippie e Cowboy, i guerrieri del circo dei pugni, aspettano che i più impavidi tra gli spettatori prendano il coraggio a due mani per salire sull’improvvisato ring. L’uno in un angolo, l’altro in quello opposto, prima del gong. E in mezzo lui, Fred Brophy, organizzatore, banditore, arbitro, tuttofare.
Città fantasma Contese aspre, disadorne, spesso cattive. Che durano lo spazio di pochi istanti. Tre round di un minuto, quando si arriva fino al gong conclusivo, senza che uno dei rivali riesca a chiudere prima la contesa. Un concentrato di adrenalina, di scarno pugilato dai contorni primitivi, di pura eccitazione che sale tra la folla. E non è detto che a chiudere le sfide con le braccia levate al cielo in segno di vittoria siano i pugili di Brophy. Match solo di rado immortalati da fotografi, men che meno ripresi da telecamere, sia pure di fortuna: volontà degli organizzatori, che stanno ben attenti a non gettare in pasto all’opinione pubblica la crudezza di combattimenti in cui è la forza a prevalere nettamente sulla tecnica.
La leggenda viaggia su Internet Fred Brophy vi ha costruito su la sua fama, girando il Paese in lungo e in largo, piantando le tende fin nei posti più remoti. Del resto, lui è il perfetto prototipo dell’uomo dell’altra Australia, quella di frontiera. Vive in una delle cosiddette «città fantasma», Cracow, uno sputo di paese, poche case, un albergo, il Cracow Hotel, ora di sua proprietà: era la dimora che cercava da tempo, scovata durante uno dei suoi viaggi a tappe forzate. E se ne va in giro, accompagnato dalla moglie Sandi, dal figlio Fred junior (pugile anche lui, ma contrario a perpetuare la tradizione di famiglia) e dalla sua «troupe», l’ultima del pugilato itinerante: «È la mia vita, lo faccio da sempre: non avevo che 4-5 anni e già me ne andavo in giro con la troupe di Uncle Selby. Chi non ha vissuto quest’esperienza non può capire fino in fondo, anche per me è difficile da spiegare. Niente a che vedere con la violenza, è solo spettacolo». Uno spettacolo «sui generis», che lo ha fatto entrare nella leggenda. Il regista Mark Shea gli ha dedicato un film che circola su Internet, ora lui stesso si appresta a raccontarsi in un’autobiografia: «Ho cominciato a scriverla un paio di anni fa, è anche per questo che non mi sono ritirato. Appena ne avrò scritto l’ultimo capitolo, penso che sarà giunto il momento di lasciare questa attività». Sarà a suo modo un momento storico. Quel giorno cadrà anche l’ultimo baluardo di una tradizione che quasi si perde nei meandri del tempo.
Da del 29/08/07
29/08/2007 23.01.30
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