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Charlie Rivel, il clown romantico

José Andreu y Lasserre, “Charlie Rivel” (1896-1983), figlio di una coppia di artisti ambulanti, nacque per caso a Cubelles, un minuscolo borgo a sessanta chilometri da Barcellona dove i genitori si erano fermati per dare spettacolo. A due anni faceva già parte della troupe famigliare, a venti coi fratelli aveva montato un’attrazione internazionale di successo e dal 1935 fece ditta da solo, diventando da quel momento uno dei più amati e richiesti clown mondiali.
Dopo una lunga stagione nel corso della quale si esibiva in equilibrio sulla testa della sorella Nena al circo stabile Lambert, presso Parigi (che chiuse i battenti alle prime avvisaglie della Grande Guerra), la famiglia si trasferì nella neutrale Spagna per lavorare, dal 1913, al circo Tivoli di Barcellona e poi al Cortez di Valencia. In seguito gli Andreu fondarono un’impresa propria – il circo Reina Victoria – e fu in quel periodo che José vide al cinematografo una delle prime comiche mute di Chaplin, restandone talmente impressionato da decidere di imitare aspetto e atteggiamenti di Charlot nel corso del suo numero al trapezio, ottenendo immediatamente un successo strabiliante. In seguito mise in piedi un numero coi fratelli, in cui musica, acrobazia e dialoghi si fondevano mirabilmente. Il suo carisma oscurò presto il ruolo dei fratelli, e questo fatto creò una situazione incresciosa di invidie e conflitti che esplose definitivamente nel 1933. José, amareggiato, lasciò la formazione.

Si ripresentò in pista nel 1935 con un nuovo trucco (in cui spiccava il naso a cubo – immortalato con un uccellino blu appoggiato sopra nel famoso manifesto realizzato da Vang Rasmussen per la sua stagione al circo Schumann del 1967), un nuovo costume (una lunga tunica rossa indossata sui pantaloni), e un nuovo personaggio (il clown romantico con la rosa tra le mani) straordinariamente riusciti, che lo consacrarono presto come stella assoluta del circo e del music-hall.
La sua estrema sensibilità, messa molto bene in evidenza in un film di produzione tedesca del 1943 diretto da Wolfgang Staudte, “Akrobat scho-o-o-n”, in cui, oltre a prodursi come clown in un numero comico al trapezio basso, dimostrò interessanti doti di attore puro, unita all’incredibile capacità di toccare le corde delle emozioni con la sola mimica, lo consacrarono prima come maggiore clown spagnolo e poi come una delle più importanti attrazioni comiche internazionali, pari come fama e come richieste solo a Grock e ai Fratellini.
Nel 1944, profondamente addolorato dalle atrocità della Seconda Guerra Mondiale cui aveva assistito in Germania, decise di lasciare le scene all’apice della popolarità, e solo nel 1952, convinto da Grock, riprese a esibirsi in pubblico.
Nel 1971 Federico Fellini lo intervistò per il film “I clowns”. Nel 1974 ricevette dalle mani del principe Ranieri il primo Clown d’oro del Festival del Circo di Montecarlo. Tenne lo spettacolo d’addio nel 1982 a Madrid.
Di lui hanno detto: “E’ la quintessenza del clown” (Jacques Fabri). “È Picasso. Picasso che, con tre o quattro tratti sopra una tela, disegna e dona tutta la sua vita… perché dietro questi tre o quattro tratti inimitabili vi è la maturità di un uomo”. “Superarlo? Sinceramente impossibile” (Aarhus). “Personaggio leggendario, come Grock, come i Fratellini, uno dei nomi più illustri del circo” (Joan de Sagarra).
Nel 1971 Charlie Rivel ha scritto l’autobiografia, “Pobre payaso”. Fu pubblicata inizialmente in Danimarca, paese da lui amatissimo e da cui era ugualmente riamato, per poi essere tradotta in spagnolo e stampata a Barcellona nel 1973. Di seguito, nella traduzione dallo spagnolo di Massimo Locuratolo, sono riportati dei brani in cui l’artista ben evidenzia la dimensione sentimentale del suo clown, e racconta il rapporto con Charlot e con Grock.

E adesso mi tocca raccontare la mia vita, la vita del clown. E’ multicolore e variopinta come il suo volto. La sua caricatura invita al riso e all’allegria, ma può cambiare all’istante e riflettere il dolore: allora dai suoi occhi sgorgano le lacrime amare del fanciullo.
Il clown è un personaggio da fiaba. Caratterizza il suo aspetto di fronte allo specchio e ciò lo mette in relazione con la vita interiore dell’uomo, coi suoi sentimenti. Il goffo naso rosso risalta sulle guance dipinte, e la bocca imbiancata si atteggia in un eterno sorriso. Ma il clown sorride veramente?
C’è un clown dentro ogni essere umano. Lui appare nella pista del circo per insegnarci le molteplici sfaccettature della vita: così sono io, tu sei così. Racconta le avventure comuni a chiunque, rivelandoci i sentimenti più intimi.
Intendo raccontarvi la storia del clown esattamente come la conosco. Del clown che ride e di quello che piange e di quello che si trova sempre in viaggio e il cui destino è lavorare, e non conosce il riposo mentre il circo si riempie di gente: di gente che viene per ridere e per piangere con lui.
Il clown esiste da molti, moltissimi anni. E’ il successore del buffone. Forse costui fu più intelligente, più umano, e qualche volta il suo cuore fu più grande di quello del re medesimo nonostante ciò, agli occhi di tutti, lui, il buffone, era un povero diavolo, un disgraziato, un miserabile – il bersaglio della derisione e del disprezzo di chiunque.
Per il clown è esattamente la stessa cosa. Tutti ridono di lui. E’, è stato e sempre sarà il povero sciocco, lo zimbello che riceve gli schiaffi. Gli buttano addosso l’acqua, lo macchiano con la meringa delle torte. Il clown inciampa nelle sue enormi scarpe, cade rovinosamente, e quando si dirige all’uscita piangendo come un fanciullo addolorato gli cascano giù i pantaloni troppo larghi. La gente lo aspetta, e il suo dovere è far ridere gli altri con le sue disgrazie.
Povero clown! Chi non lo disprezza? E’ inferiore a tutti, e nel mondo del circo si trova al gradino più basso della scala sociale. Esiste solo per suscitare risate: non è importante che il suo cuore soffra. Compie il suo ingresso in pista mentre gli altri si affrettano ad istallare le reti e i trapezi per i veri artisti, e i bambini lo indicano col dito. Povero clown!
Nella mia vita ho incontrato molti clown, e tranne pochissime eccezioni sono tutti finiti in disgrazia e in miseria. Una volta ne ho conosciuto uno che amava appassionatamente una ragazza. Anche lei era innamorata di lui, ma poco a poco gli si allontanò perché non lui era altri che un clown, uno sciocco, uno scemo che la gente non faceva altro che deridere. Lei lo lasciò, e il clown ne soffrì così tanto che finì per togliersi la vita.
Ci fu poi un altro clown che aveva imboccato la via per raggiungere la fama. I suoi successi erano eclatanti in tutto il mondo, e stava quasi per ritenersi il più grande di tutti. Ma un bel giorno la gente iniziò a non ridere più delle sue buffonerie. Lui iniziò a sentirsi insicuro di se stesso, e il dolore gli solcava il volto truccato. Cercò di obliarsi nell’alcol. Il pubblico, quando recitava, non tardò a cessare di ridere del tutto, e così la sua tendenza al bere aumentò. Quando ciò avviene non c’è più niente da fare, perché a quel punto il clown non ha più senso.
Anni dopo lo andai a trovare. Non era null’altro che una rovina umana.
Ah, il clown! Quel povero diavolo, quel fantoccio, quella bambola di cenci, quel personaggio che tutti considerano sempre il più disgraziato dei disgraziati!
Però, nonostante tutto, il lavoro del clown esige da lui che sia più intelligente, più umano, più sensibile di tutti gli altri.
Proprio per questo la sua vita finisce quasi sempre in tragedia.
Povero clown!
(…)
Da Barcellona ritornammo a Parigi. Lì rimasero mamma e i tre piccoli, René, Marcel e Roger, mentre Nena, Polo e io andammo a Gandes, una splendida e antica città belga, per lavorare in un teatro di varietà, il Folies Bergère,. Fu lì che vidi per la prima volta Charlie Chaplin. Non potevo ancora sospettare ciò che quel ragazzo avrebbe significato per me e per tanti altri. A quell’epoca era completamente sconosciuto, e sarebbe passato molto tempo prima che iniziasse a girare dei film. Recitava nel nostro stesso programma, in uno sketch comico intitolato “Tingel-Tangel”. Sebbene possa sembrare incredibile, a nessuno venne in mente che il suo nome sarebbe arrivato un giorno a eclissare tutti gli altri.
(…)
Quegli anni mi portarono qualcosa di nuovo, qualcosa che avrebbe avuto un significato decisivo per la mia carriera artistica, e che avrebbe dato inizio a una nuova tappa della mia vita.
Una sera mi trovavo per caso al cinema con un’amica e proiettavano un film di Charlie Chaplin, che in Spagna chiamavano Charlot. Il film si intitolava “Charlot campione di boxe”. Era la prima volta che lo vedevo sullo schermo e avevo le lacrime agli occhi tanto ridevo. Quella notte, nel mio camerino, mi guardai allo specchio cercando di atteggiarmi come lui. Mi feci i baffetti e le grandi sopracciglia con una matita nera, indossai la bombetta e presi il bastoncino che usavo per il trapezio. Trovai pure delle scarpe enormi e le indossai, scambiate, ai piedi. Così trasformato uscii dal camerino, e gli artisti continuavano a ridere: “Ma sei proprio Charlot! Che somiglianza impressionante!”
Entrai in pista per eseguire il numero comico al trapezio truccato in quel modo. Al termine, mio padre mi riprese molto seriamente e mi proibì di rifare quella parodia nello spettacolo successivo.
Nel 1916 andammo a Madrid, dove il circo Reina Victoria si istallò nel quartiere di Atocha. Tutti i giornali, così come i manifesti, annunciavano che Charlot in persona si sarebbe esibito al circo Price. Ero entusiasta di poterlo ammirare, e la notte del debutto andai lì. Chaplin fece una pantomima con una giovane donna che, stando al programma, si chiamava Miss Mabel. La pantomima era davvero pessima, e Charlot mi sembrava più Cyrano de Bergerac che l’autentico Chaplin, dal momento che, ovviamente, non c’era Charlot in persona ma un imitatore senza scrupoli che si spacciava per lui. Il pubblico non tardò a reagire e si udirono fischi, piedi pestati e urla che dicevano “fuori… , fuori… “. Alla fine, il tutto si trasformò in un tumulto di dimensioni enormi: il falso Charlot non riuscì a terminare il numero.
La scarsa qualità di quello spettacolo mi diede il coraggio di mettere in piedi la mia parodia.
Mio padre, con qualche limitazione, mi diede il permesso di rappresentarla un’unica volta. Io debuttai, ottenendo un successo trionfale. Mio padre ne rimase così soddisfatto che da quel momento non pose più nessuna obiezione. Da quel momento il numero venne annunciato su manifesti speciali: “Pepe Andreu nella sua prodigiosa imitazione di Charlot”. A Madrid restammo tre mesi. Sempre con l’intenzione di introdurre cambiamenti continui al programma, presi la briga di svolgere ogni genere di ruolo: acrobata, trapezista, volteggiatore a cavallo, giocoliere, equilibrista, saltatore e non so quante altre cose ancora. Lo spettacolo includeva pure una pantomima, ed ebbi così l’opportunità di recitare pure in un ruolo comico. L’elemento comico mi appassionava, e continuavo a sognare di arrivare un giorno a fare il clown. A un certo punto mi decisi a farlo sapere a mio padre: “Papà, perché non prepariamo un buon numero di clown?”
“Forse non sarebbe una cattiva idea” rispose. “Il numero comico potreste farlo tu e Polo”.
La cosa mi rallegrò moltissimo: stavo realizzando il mio desiderio di sempre. Mi tornarono in mente le parole che papà Lambert pronunciò quando ero piccolo: “Un giorno diventerai un grande clown”. Presto la mia allegria fu oscurata da una nube, però: mio padre decise che avrei dovuto recitare la parte dell’Augusto, invece che quella del Clown ruolo, questo, destinato a mio fratello Polo e che tanto mi piaceva.
Dal momento che tutti i numeri erano eseguiti dai membri della famiglia, il nome “Andreu” sui manifesti ritornava sempre. Mi sembrava eccessivo: si aveva l’impressione che nel nostro circo non ci fossero altri artisti.
I fratelli Andreu apparivano continuamente: sui trapezi volanti, nella incomparabile parodia di Charlot, nel geniale numero di acrobazia, nella famosa entrata clownesca… Non si vedeva che quel nome ovunque.
Proposi a mio padre di cambiare denominazione, per evitare queste ripetizioni. Mi accinsi quindi a scrivere le lettere su un foglio e a unirle in combinazioni differenti. Da questo rompicapo ne uscì una che mi piacque in maniera particolare: consisteva nelle lettere R,I,V,E,L.
“Ci siamo!”, esclamai.
Charlot Rivel. Lo ripetei mille volte. Giunsi infine alla conclusione che la versione inglese del nome, Charlie, per il numero al trapezio suonava meglio. E fu così che nacque il mio nome d’arte, Charlie Rivel. Ma a mio padre quel Charlie non piaceva, e per il numero di clown decise che avremmo lavorato come Bobby e Polo. Si stamparono altri manifesti coi nuovi nomi, e ricominciammo a girare per tutto il territorio spagnolo, fino a Pamplona, dove ci presentammo per la festa di San Firmino.
(…)
Quando ancora lavoravo allo “Scala” venne a vedermi Willy Schumann, direttore del miglior circo di Copenhagen, che portava il suo nome. Ci mise sotto contratto per la stagione 1928.
Prima di andare in Danimarca continuai a girare la Germania. Recitammo a Colonia, Amburgo, Dusserdolf e in altre grandi città. In seguito fummo al teatro “Empire” di Parigi, per il quale firmai un contratto per tutti e due i miei numeri.
Lì sorse un altro problema.
Per quello stesso periodo i direttori Dufresne e Varna avevano inserito in programma come attrazioni principali il debutto del mondialmente famoso Grock, oltre che me.
Venni messo al corrente della situazione dai sopra citati signori quando raggiunsi Parigi.
Non sapevano che pesci pigliare. Grock pretendeva che nessun altro clown figurasse nel medesimo programma in cui appariva lui. Esigeva che il contratto venisse rispettato, e nel contratto c’era scritto che l’attrazione principale doveva essere lui.
Facemmo un colloquio coi direttori, durante il quale ebbi l’occasione di conoscere personalmente Grock, la qual cosa mi diede davvero un’immensa soddisfazione personale.
Giungemmo presto a un accordo. Con tutto il rispetto che avevo sempre provato per lui, accettai di non essere io l’attrazione principale, rinunciando perdipiù a presentare qualsivoglia numero di carattere comico per tutti i quindici giorni della sua presenza all’ “Empire”.
Facemmo solo il numero al trapezio e la parodia. In seguito a quell’avvenimento, Grock ed io stringemmo un’amicizia cordialissima. Il suo ruolo avrebbe significato tantissimo per me, e mai me ne sarei dimenticato in seguito.
(…)
Nel 1964 trascorremmo un lungo periodo a Geneviève sur Marne. Nel corso delle lunghe passeggiate nel parco, accompagnato dal mio cane Putch, potevo vedere all’altro lato del muro di cinta, in mezzo a un orto di alberi da frutta, un cartello a grandi caratteri che diceva: “Residenza Charlie Rivel”. Avevano costruito cinquanta appartamenti proprio lì.
Un giorno Carmen mi chiamò: “Pepe, c’è il tuo amico Serge al telefono”.
Risposi, e Serge disse che stavano organizzando un festival internazionale di Clowns in Italia. Si sarebbe tenuto il 12 dicembre a Campione, sulle rive del lago di Lugano. Avrebbero aggiudicato il trofeo Grock, pensato per onorare l’illustre artista, e gli organizzatori ci tenevano in modo particolare che io fossi presente.
Era un debito che avevo che avevo contratto con il vecchio amico Grock. Mi recai a Campione e venni presentato come ospite d’onore. Il festival si svolse con molto successo. Trasmesso in Eurovisione in una decina di paesi, si calcola che fu visto da 70 milioni di persone.
Come arrivai a Campione venni assalito dai giornalisti, dai fotografi e dagli intervistatori delle radio di ogni paese. Ci fu un grande spettacolo al Casino, con la partecipazione del balletto della Scala di Milano, del celebre tenore Giuseppe Cecilio, dell’attore comico Polydor, dei cantanti Tony Renis e Domenico Modugno e della mia. Il successo fu pieno e totale.
La sala, ridondante di fiori, era esaurita in ogni ordine di posti da un pubblico elegante.
Al termine dello spettacolo, il Ministro italiano del Turismo, Achille Corona, salì sul palco e mi consegnò la coppa d’argento del Festival.

Massimo Locuratolo 

 

da: “Blogosfere”, 17/04/2007

 

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