Addio alle tigri Il nuovo circo diventa teatro
L’AVVENTURA, il viaggio, il rischio, la minaccia, l’apparire della luce, l’odore della segatura e quello delle belve, la misteriosa penombra lassù sotto la cupola, la musica straziante, quell’aria di gioco e di esecuzione, di grazia e di follia, che è il circo». Così, da innamorato, Federico Fellini parlava, sognava del circo. Niente odore di segatura, né di belve, e nemmeno musica straziante, di tamburi che annunciano il brivido e di trombe tristi dei clown, sotto lo «chapiteau» del Cirque du Soleil. Lo spettacolo «Alegria», nato nel 1994, è in scena – e visto il successo resterà fino al 24 giugno – a Roma. Il «villaggio», abitato da trecento persone, tra artisti, tecnici e operai, è perfetto: dal campo di pallavolo ai gruppi elettrogeni, dalla mensa a Internet, alla scuola dove studiano quindici ragazzini. Tutte le esibizioni, sera dopo sera, vengono riprese così che, il giorno dopo, gli artisti rivedono il dvd, commentano, si criticano. L’impressione è di una serena e severa estrema professionalità. Il circo cambia, si evolve. Quello contemporaneo, ad esempio, è protagonista a Brescia in questi giorni e fino a luglio inoltrato.
Da Buenos Aires a New York
«Ma torniamo al Cirque de Soleil. «Alegria» è uno degli undici spettacoli, da Buenos Aires a New York, dal Giappone all’Australia, da Orlando a Las Vegas, proposti da questo colosso artistico e anche economico, nato nel 1984 per formidabile intuizione dell’artista di strada canadese Guy Laliberté: aveva compreso che del circo ci sarebbe stato sempre desiderio, ma le forme in cui proporlo dovevano cambiare. Niente animali, solo i prodogi concessi agli umani, ai migliori talenti internazionali non una serie di numeri staccati, ma un concetto unitario, una visione dello spettacolo ribadita dal disegno luci di Luc Lafortune, dai costumi, tessuti uno per uno, di Dominique Lemieux, delle musiche appositamente create dal compositore René Dupéré, che fa muovere la sua band di sei strumentisti tra il jazz e il klezmer, nella costante presenza di due vocalist che accompagnano la serie dei numeri. Due ore di spettacolo senza un momento di caduta, in un perfetto rapporto tra creatività artistica – dai clown alle contorsioniste, dai trapezisti alla giocoliera – e controllo di tutti i parametri tecnici, a cominciare dal nitore del suono. Il regista Franco Dragone, attento anche a stimoli che vengono dall’immaginario cinematorafico e dai coreografi contemporanei, parla di «Alegria» come di «un omaggio alla famiglie circensi che fino a non molto tempo fa ancora attraversavano in un viaggio itinerante tutta l’Europa, partendo dal loro villaggio». Di fronte alla qualità e ai numeri del Soleil, viene inevitabile un raffronto con la situazione del circo italiano. «Il Cirque du Soleil ha insegnato tre cose fondamentali: la concezione globale dello spettacolo, la necessità delle tecniche di marketing, il costante rapporto con l’informazione e la critica. Purtroppo noi italiani non le abbiamo ancora imparate», dice Alessandro Serena, figlio di un’acrobata e di un musicista circense, «operatore culturale con i piedi sporchi di segatura», docente di Storia dello spettacolo circense e di strada all’Università Statale di Milano, attivo anche al Centro di documentazione delle Arti Circensi di Verona: la più importante biblioteca italiana del settore.
Eppure, il livello dei nostri artisti oggi è altissimo: il primo, secondo e terzo Clown d’Oro del Festival di Montecarlo – uno dei più ambiti Oscar del circo – sono stati attribuiti a degli italiani: i fratelli acrobati Maycol e Guido Errani (17 e 18 anni) Stefano Nones Orfei, per il numero delle tigri ammaestrate il ventriloquo Willer Nicolodi. E italiano è David Larible, il clown più apprezzato, che lavora negli Stati Uniti.
Declino e qualità
Il premio concesso a Nones ci ricorda che, nel nostro paese, gli animali sono ancora consentiti, sotto il tendone: una normativa emanata dal Ministero dell’Agricoltura impone misure precise e severe di controllo, di igiene, di modalità da rispettare durante i periodi di viaggio. «Circhi come Medrano, Togni, Orfei certo non li trascurano – prosegue Serena – perché i numeri con gli animali sono importanti nei loro spettacoli invece, altre realtà minori sono del tutto incuranti delle loro condizioni». Valeria Bolgan, neo-laureata a Ca’ Foscari con una tesi sui rapporti tra circo e informazione, attiva all’Arcipelago Circo Teatro di Venezia, lamenta l’attuale disinteresse, e incompetenza, di gran parte dell’informazione riservata al circo: «Il circo è sempre stato in grado di parlare con la gente, di saperla coccolare, prendere per mano, e all’interno del folto gruppo di persone che seguivano carovane e chapiteaux colorati, festosi, c’erano anche gli intellettuali, i grandi attori, i registi che si sono lasciati incantare, gli artisti, i cantanti che si trasformavano in acrobati e domatori, gli sportivi che sfidavano le leggi di gravità e i limiti stessi imposti dalla vita: una forma d’arte descritta negli anni che furono persino dalla stampa». Oggi, invece, la parola circo viene più spesso usata in contesti impropri, con intenzione spesso svalutante: Il «circo della politica», il «circo della Formula Uno»…
Declino e qualità camminano a braccetto nei circhi italiani la seconda è figlia di una grande tradizione e delle nuove realtà, come l’Accademia di Verona, che si incaricano di preparare i futuri talenti, il primo nasce da scelte politiche discutibili: anche i circhi sono finanziati, sia pure in piccolissima misura, dal Fondo Unico dello Spettacolo del Ministero dei Beni Culturali e dagli anni Ottanta questi contributi vengono dati a pioggia, senza nessun criterio qualititativo. Diventa così difficile competere con le grandi dimensioni dei migliori circhi internazionali. C’è poi una furbizia tutta nostrana: Moira, Nando, Miranda sono i tre membri ufficiali della Famiglia Orfei, però in periodi recenti giravano in Italia una trentina di circhi con questo marchio: casi di omonimia, identità fasulle, persino dei prestanome compiacenti. «La ritrovata vitalità del circo come spettacolo unico è indiscutibile, in tutto il mondo. In Italia, abbiamo la possibilità di fare molto bene, a patto di smetterla con il piccolo cabotaggio», immagina con ottimismo Serena.
Da del 12-06-06
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