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Stampa: Sognando la libertà del “corvo”

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La coinvolgente opera prima del veneziano Francesco Fontana è ambientata nella Germania della prima metà del secolo scorso

 

Sognando la libertà del “corvo”

 

Successi e disavventure di un imitatore d’uccelli in una girandola picaresca di situazioni

 

di LUCA ORSENIGO

Com’è difficile essere liberi. Liberi dall’osservanza di ogni regola sociale imposta, liberi dalle convenzioni culturali del periodo e dal perbenismo moralistico dell’epoca, liberi dai ruoli e dalle identità, liberi anche da se stessi, tanto liberi da vivere magari la vita come un dono da donare. Quando e se accade, il risultato è emarginazione, incomprensione, diffidenza e fastidio nel migliore dei casi. In tutti gli altri c’è sempre chi s’incarica di giudicare e chi d’eseguire il giudizio quando non si tratti della stessa persona o della medesima istituzione. E così, in nome di Questo o di Quello si istituiscono processi e si comminano pene, si riempiono manicomi e campi di concentramento, si costruiscono muri e riserve sacrificando l’umano, tutto ciò che è umano, al Sabato.

L’opera prima del veneziano Francesco Fontana, “L’imitatore di corvi”, (Feltrinelli, 15 euro) racconta la storia di un tipo così, tal Fritz Zemanek, poi Zemen, imitatore d’uccelli, corvi soprattutto, e raccontando dei suoi successi, pochi, e delle di lui disavventure, tante, racconta molto, molto altro ancora, in una girandola picaresca d’avvenimenti e situazioni e con un amore tale per la poesia della vita, da lasciare davvero sorpresi. Finalmente un romanzo italiano, vien fatto di dire, adulto da subito, letterario certo, da Pirandello a Kafka, da Roth a Svevo, gli echi, per rimanere nel classico, si sprecano, e poi Freud, Jung, sono tanti quelli che si possono scomodare, ce n’è per tutti i gusti, ma prima di tutto, per capirsi senza, dirà qualcuno, dir niente, un romanzo bello, bello, bello. E mica la solita piatta fotografia della realtà attuale, ma un racconto che seppur ambientato nella Germania della prima metà del secolo scorso, possiamo sentire vicino per mille motivi. Questo facilita da una parte un po’ di sano distacco dalla materia narrata: prospettiva e profondità dall’altra la possibilità di capire chi e come siamo diventati, con ironia e umorismo, in un caleidoscopio dove la figura al fondo è sempre , grande, individuale e collettiva, non ha importanza, perché qui tutte si mischiano e si sovrappongono attraversando, in una persona, buona parte del secolo passato a partire da un piccolo villaggio nel Giura Francone.

Lui, Fritz, è l’eroe che resiste ad ogni omologazione, piedi per terra e pensieri dappertutto, sospettoso, dolcissimo personaggio dotato di una sensibilità fuori dal comune che lo rende vittima della norma alla quale non sa e non vorrebbe piegarsi, dovunque lo getti il destino: sia che si trovi tra le braccia di Lotte, una zia quasi coetanea, sia tra le funebri quinte della nascita del nazismo sia tra le piste di un circo dove, complice Karin, una assatanata e bellissima nana, conoscerà un po’ di pace e di amore, sia sul palcoscenico orribile dello sterminio o nei cunicoli bui dell’insensatezza psichiatrica. Quando può vive e ama con tutte le sue forze, fedele fino al sacrificio quando non può, finge e si nasconde dietro una maschera per sembrare quello che gli altri vogliono che lui sia, dando loro quello che si aspettano quando non capisce se può o se non può si acquatta tra le pieghe del tempo e della storia, pronto a ritornare non appena le condizioni lo permettano, a testimoniare sempre la stessa cosa: la necessità inderogabile di essere quel che si è, costi quel che costi. Ed è una libertà che interroga questa di Fritz, perché al suo cospetto molte delle certezze inossidabili della moralità e dell’educazione contemporanee scricchiolano e cedono al senso assoluto (letteralmente ab solutus) che rappresenta la sua vita. Stranezze senza senso di un disadattato ? Personalità istrionica o borderline? Semplicemente pazzia, al di là di ogni ragionevole dubbio, qualsiasi significato abbia la parola? Forse, invece di domandarsi chi sia Fritz Zemanek (un imitatore di corvi, per altro) la sua libertà ci obbliga a specchiarci in noi stessi e domandarci se non saremmo anche noi capaci a macchiarci delle stesse colpe dei giudici e degli operatori di iniquità che hanno bellamente dato il via a tutto l’orrore di quella storia, internamento di Zemanek compreso. Perché, allora come adesso, a nulla serve nascondersi «dietro un velo di perbenismo, di rispetto per il prossimo, credendo di poterci conquistare così un’assoluzione a buon mercato, semplicemente distinguendo il nostro comportamento da quello di chi ci sta(va) intorno». La banalità del male è tutta qui, ed è orrida a vedersi.

 

Da Il gazzettino on line del 02-04-06

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