
Gli Argonauti di Corsetti si danno al circo
Enrico Fiore «Il mito arriva a lambire i nostri piedi come acqua scura ed ormai contaminata». Così Giorgio Barberio Corsetti nelle note di regia relative a «Di animali, uomini e dei». Era il 2003. Oggi – nelle note di regia relative ad «Argonauti» (nella foto sotto, una scena), lo spettacolo che dà al Mercadante – Barberio Corsetti dichiara che «è presente, in ogni avventura che intraprendiamo, laggiù nello sfondo, il luccichio del vello d’oro». Ma, si capisce, il problema non è che il regista romano abbia cambiato idea, anche se non si capisce che cosa gli abbia fatto cambiare idea nell’attuale congiuntura sociale, politica e culturale. Il problema è che le due posizioni citate sono entrambe presenti nello spettacolo, sì da estendere ad esso l’incomprensibile e paralizzante contraddizione che incarnano: da un lato Orfeo, pur confinato in un letto d’ospedale, inneggia alla forza salvifica della poesia, addirittura identificando il proprio corpo con e dall’altro gli eroi che su quella nave si sono imbarcati vengono ridotti a una sorta di armata Brancaleone, vestita d’ordinari abiti moderni e sospesa fra battute da cabaret e non meno ordinari esercizi circensi. Delle «Argonautiche» di Apollonio Rodio (e dei quattro libri e dei 5835 esametri che le compongono) non resta – nella drammaturgia dello stesso Barberio Corsetti e di Raquel Silva – che il riassuntino degli episodi salienti. E certo, nessuno poteva pretendere di veder riprodotto in palcoscenico uno dei ponderosi scoli con cui i dotti greci commentarono quel poema. Ma è altrettanto certo che potevamo (e dovevamo) pretendere che almeno non si buttasse via, soprattutto sul piano della recitazione, la finissima indagine psicologica sul sorgere e il crescere della passione di Medea per Giasone. Un altro, però, è il punto centrale. L’abbassamento di tono e la riduzione del mitico, del meraviglioso e del magico alla quotidianità odierna – gli stilemi concettuali che in «Metamorfosi» e, appunto, «Di animali, uomini e dei» Barberio Corsetti aveva condotto ad alti esiti creativi e formali – qui diventano semplice e stanco manierismo. Senza contare che, costretti nell’angustia di un palco, la fune, il trapezio e il tappeto elastico perdono anche il fascino che donavano loro spazi unici come a Venezia le «gaggiandre», i Giardini delle Vergini e le Tese dell’Arsenale e, a Siracusa, l’Orecchio di Dionisio e le Latomie del Paradiso. Del resto, nei panni di Orfeo appare un po’ spento lo stesso Filippo Timi, per solito eccellente. E degli altri si può riscontrare, nella migliore delle ipotesi, appena appena basta. Con buona pace di quelli che insistono a far finta di credere che tutti i problemi del teatro dipendano dai famigerati tagli al Fus, uno, se vuole ridere, se ne va all’Augusteo a vedere Salemme, che sicuramente fa ridere di più e se vuole vedere il circo, se ne va al circo, dove altrettanto sicuramente il circo lo fanno meglio.
Da Il Mattino del 31-03-06
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